Alghero d’inverno
Lontani dalla calca estiva ci si può avvicinare ancora di più all’anima della città, ma il conto da pagare, per i residenti, è spesso più salato di quello dei ristoranti aperti solo d’estate
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Pubblicato sul Sardinia Post Magazine n.34 dicembre 2022.
C’è una luce diversa, d’inverno, ad Alghero. E anche se vivi qui tutto l’anno, e per tanti anni, ci metti sempre un po’ ad accorgertene. Arriva lento, l’inverno, se la prende comoda come chi sa che nessuno l’aspetta: così un giorno ti svegli, senza neanche guardare il calendario, ti affacci alla finestra e dici: «Ecco: è arrivato l’inverno».
Lo capisci dal cielo: non è più carico di quell’azzurro lisergico che accende l’estate, che quasi non riesci a fissarlo per quanto è intenso: somiglia piuttosto a un lenzuolo sbiadito per le troppe piroette in lavatrice. Lo capisci dal sole: d’estate va a nascondersi dietro Capo Caccia ma, quando arriva l’autunno, nel suo andare e tornare sulla linea dell’orizzonte, va a tramontare, tuffandosi, nel mare. E poi lo capisci dalle strade: ti affacci alla finestra, guardi di sotto e vedi che, tra un’automobile e l’altra, emergono degli spazi vuoti, parcheggi liberi: e allora, a quel punto, lo affermi senza esitazione: «È arrivato l’inverno».
Insieme a te, quel giorno, lo diranno in tanti: Michele e Lucia, ad esempio, hanno poco più di vent’anni e non sono mai usciti insieme: lui vorrebbe fosse una sera speciale, a lei in realtà basterebbe poco; cercano un posto dove scambiarsi le prime chiacchiere e bere qualcosa, lui un vino, lei una birra, che non sia però il solito posto, quello dove già sono stati altre volte e con altre persone. Vagano un po’ per i carrers del centro, ma trovano solo porte chiuse e serrande abbassate; per gentilezza, qualcuno ha scritto “chiusi per ferie” non curandosi di specificare, però, la data di riapertura, che è cosa ovvia: quando l’inverno sarà finito.
Txu Carmelo, invece, è rimasto solo ormai da qualche tempo: è vecchio, ma si tiene in forma facendo lunghe passeggiate. Finché il sole tramontava tardi e lungo il lido incrociava sempre tanta gente che quasi non riusciva a passare, giovani e non, sorrisi e occhi felici che anche se era solo gli sembrava di non esserlo, passeggiare lo faceva stare meglio; ma adesso che alle cinque di sera è già buio e lungo il tragitto è già tanto se incontra mezz’anima, Txu Carmelo cammina in mezzo allo scuro e ai suoi pensieri, e infila un passo dopo l’altro perché tornare a casa sarebbe pure peggio.
Per Antonio, invece, stare a casa è una benedizione: per lui la parola “estate” significa solo una cosa: “lavoro”. Fare il cameriere diventa ogni anno più faticoso, se poi tocca lavorare dieci, dodici ore al giorno per trovarne sette (o quasi) in busta paga, la fatica diventa frustrazione. E poi ci sono i turisti, ogni stagione più cafoni di quella precedente, o forse è semplicemente la sua soglia di sopportazione che si fa sempre più bassa, del resto sgobbare dalla mattina alla sera per uno stipendio da fame non è una cosa che si può fare per tutta la vita. Per questo è da ieri, da quando il ristorante dove lavora è chiuso, che Antonio non si è ancora alzato dal divano, e non ha in programma di farlo per un po’.
Del resto qui ad Alghero coviamo, da sempre, due grandi utopie: la pace del mondo e la destagionalizzazione. E se chiedete a un algherese quale delle due gli sembri la più lontana, sicuramente vi risponderà che, tutto sommato, la pace nel mondo non è un obiettivo così irraggiungibile. Sarà forse colpa della parola? Il de privativo mal si concilia con il potente significato della parola che precede: “ciascuno dei quattro intervalli di tempo nei quali l’anno resta diviso dai passaggi del Sole agli equinozi e ai solstizi”. A volerla prendere alla lettera, dunque, l’algherese avrebbe anche ragione: per destagionalizzare occorrerebbe arrestare l’orbita ellittica che il pianeta Terra disegna intorno al Sole, fatto che, con tutto il rispetto della categoria, è più affare da biblico prodigio divino piuttosto che da professionisti del marketing turistico.
Ad Alghero coviamo, da sempre, due grandi utopie: la pace del mondo e la destagionalizzazione. E se chiedete a un algherese quale delle due gli sembri la più lontana, sicuramente vi risponderà che, tutto sommato, la pace nel mondo non è un obiettivo così irraggiungibile.
Eppure, in qualche modo ci abbiamo provato: una volta fatte fuori le proverbiali “mezze” che, come tutte le cose di mezzo, non hanno diritto di essere considerate nella nostra polarizzata contemporaneità, sono rimaste le due più decise: l’estate e l’inverno. Perlomeno, sarebbero rimaste, perché il cambiamento climatico incombe e dunque ecco le ottobrate e le novembrate, il sole che splende e le temperature così vicine ai 30 gradi che le stecchite piante di nere trame di Pascoli sembrano solo un lontano ricordo. Sembrava tutto fatto, insomma, in questo 2022 di crisi almeno una bella notizia i giornali l’avrebbero potuta dare: “È fatta per la destagionalizzazione / Le alte temperature portano belle giornate e turisti tutto l’anno”. E invece, sul più bello, cosa succede? Che se anche abbiamo debellato autunno, primavera e inverno, ci siamo dimenticati della summer e della winter. Ci siamo concentrati sulle stagioni climatiche, ma ci siamo dimenticati di quelle aeroportuali.
Ormai da anni, infatti, ci siamo abituati, quasi assuefatti a questi ritmi. Un tempo le fasi della vita erano scandite in relazione alle principali attività agropastorali, dettate a loro volta da una simbiosi uomo-terra le cui origini si perdono nella notte dei tempi: c’erano dunque la stagione della semina e quella del raccolto, e il solstizio d’estate e quello d’inverno a segnare i punti cardinali dell’anno solare e cadenzare le vite degli uomini; oggi, invece, il destino delle nostre esistenze viene imposto dalle grandi compagnie aeree.
E dunque l’estate, o meglio la summer, comincia il primo di aprile e si conclude il 30 di ottobre lasciando posto, dal primo di novembre — guarda caso in concomitanza con le feste dei santi e dei morti — alla winter, periodo in cui l’aeroporto di Alghero si trasforma in un Sahel munito di tabacchino. Ai potenziali visitatori viene così negata la possibilità di raggiungere la città durante tutto l’anno, mentre ai residenti — ogni tanto bisogna pur pensare anche a loro — manca la libertà di potersi concedere un viaggio a febbraio senza dover necessariamente spendere svariate mensilità stipendiali.
Ai potenziali visitatori viene negata la possibilità di raggiungere la città durante tutto l’anno, mentre ai residenti — ogni tanto bisogna pur pensare anche a loro — manca la libertà di potersi concedere un viaggio a febbraio senza dover necessariamente spendere svariate mensilità stipendiali.
Tutto questo a causa delle scelte di Ryanair e compagnie aeree affini le quali, forse ispirate dal fatto che novembre, anche nelle campagne, sia sempre stato il mese delle grandi potature, da un giorno all’altro sfrondano di netto il numero delle rotte aeree. Così l’estate non è più solo la stagione delle melanzane e dei pomodori, delle fragole e delle zucchine, ma anche degli aerei e, soprattutto, dei turisti; l’inverno, invece, è quella del letargo: dopo essere stata calpestata, consumata, spremuta durante l’estate, Alghero va a riposarsi, rimboccandosi le coperte, recuperando le forze per l’estate, pardon, la summer successiva.
«Quanta glòria és passada», quanta gloria è passata, «a damunt de la pedra rodona», sopra la pietra rotonda, «la ginqueta de història enraona», la ginqueta parla di storia, «la ginqueta n’és fins llisada», la ginqueta ne è addirittura levigata. Così Pino Piras, cantautore algherese morto nel 1989 cui è stata dedicata una graziosa e ampia piazza nel centro storico, raccontava l’anima antica della città, utilizzando la ginqueta — i ciottoli rotondi che pavimentano gran parte dell’Alguer vella — come simbolo di un passato denso, fatto di avvicendamenti tra popoli, di battaglie, di lingue e culture diverse stratificati uno sopra l’altro e che ancora oggi aleggiano come spiriti per i vicoli della città. I latini lo chiamavano genius loci, la divinità legata al luogo che la ospitava, espressione che oggi viene usata per definire l’insieme degli aspetti culturali, linguistici, artistici e ambientali che caratterizzano un luogo. Qualcosa di simile alla tanto sbandierata “identità”, ma più complesso, ineffabile, e soprattutto difficilmente riducibile al linguaggio edulcorato e semplificato delle campagne di marketing che spesso parlano di “vera Alghero” (o qualsiasi altra località).
E dunque, dovreste vedere che bella è, Alghero, quando dorme. È come tornasse a essere sé stessa. D’inverno, Alghero non ha bisogno di “farsi bella”, non ha bisogno di esistere in funzione di qualcuno: vive, semplicemente, e questo le basta. I tavolini dei ristoranti sgombrano finalmente le piazze e le mura, i turisti non affollano i carrers rendendoli di fatto impraticabili, la sabbia delle spiagge ha modo di scappare in mare e ritornare, a volte anche più bianca di prima. Ci sono mattine, quando nel resto del mondo soffia il grecale, in cui il mare di Alghero si ferma per godersi la propria pace, e se vi affaccerete dalla muralla, perché così si chiamano i bastioni, riuscirete a vedere i pesci uscire e rientrare nelle loro tane.
D’inverno, Alghero non ha bisogno di “farsi bella”, non ha bisogno di esistere in funzione di qualcuno: vive, semplicemente, e questo le basta.
Basta tutto ciò per rendere Alghero una città da vivere tutto l’anno? Basta per convincere un algherese a restare, basta per sedurre un visitatore ad arrivare? Perché il rischio è quello che, per una giornata meravigliosa, se ne passino altre dieci deprimenti, e che a furia di guardare i pesci uscire e rientrare dalle loro tane si finisca per conoscerli tutti a memoria, quanto e forse più dei pochi abitanti rimasti. Una città che per qualche mese all’anno esplode di vita, che quantomeno triplica il suo impatto antropico, che vede visitatori e locali sfruttare al massimo il momento, che riduce cultura e ambiente e prodotto in grado di generare profitto, salvo poi spegnersi all’improvviso in un ombrellone chiuso, in una saracinesca abbassata, è una città malata, la cui aspettativa di vita si abbassa ciclo dopo ciclo, anno dopo anno. Il turismo di massa, del resto, è un fenomeno con il quale le grandi città hanno già cominciato e misurarsi e che rischia, nelle piccole realtà come quella algherese, di fare grossi danni al tessuto urbano e sociale. Un meccanismo estrattivo, che tira fuori il peggio sia dall’ospite, il quale, per il solo fatto di pagare, si sente legittimato a trascendere nell’inciviltà e spesso nell’illegalità, che dall’ospitante, che vede nel visitatore non un altro essere umano, ma un pollo da spennare.
Una città che per qualche mese all’anno esplode di vita, per poi spegnersi in un ombrellone chiuso, in una saracinesca abbassata, è una città malata, la cui aspettativa di vita si abbassa ciclo dopo ciclo, anno dopo anno.
Ma visto che la presunta “vocazione” turistica è in realtà una scelta politica, questo non vieta ad associazioni, enti, fondazioni locali la possibilità di animare la città anche quando il sole non brucia: il grande Cap d’Any, certo, ma anche concerti, spettacoli, eventi culturali. I numeri, va da sé, non possono essere quelli estivi — l’inverno è pur sempre l’inverno — ma questa non è necessariamente una cattiva notizia.
Vivere Alghero d’inverno significa, in buona sostanza, avvicinarsi ancora di più all’anima della città, ma il conto da pagare è spesso più salato di quello dei ristoranti aperti solo d’estate.
E infatti Txu Carmelo ha capito che d’inverno conviene uscire la mattina e fare lunghe passeggiate sotto il sole che adesso non brucia più la pelle come a luglio, ma avvolge la schiena e scalda le ossa, come l’abbraccio di un amico. Ma quando il sole non c’è, che fare?
Michele e Lucia alla fine sono finiti nel solito locale — uno dei pochi aperti anche d’inverno — eppure hanno detto l’uno all’altra cose mai dette a nessuno, e mentre passeggiano adesso per i carrers di Alghero vecchia, si accorgono che ogni vicolo è quello giusto per darsi un bacio. Chissà, però, per quanto ancora tra quei vicoli decideranno di restare.
Antonio è uscito di casa ed è andato in spiaggia, perché adesso il mare è tutto per lui: non ha dovuto fare la fila, né pagare il parcheggio. Anche questa, in fondo, è vita: mangiare una focaccia su un asciugamano e ascoltare l’acqua che bagna la riva. E nessuno da servire. «I quantes versos me dona» e quanti versi mi regala, cantava ancora Pino Piras, «quan vaig a collir poesia», quando vado a cogliere poesia. Fino al prossimo aprile.