Autunno in Barbagia e la messinscena della sardità

Nella tappa di Mamoiada l’evento ha fatto registrare un afflusso straordinario tanto che, nel corso della giornata, il sindaco ha dovuto lasciare l’appello: «Non venite».

Ignazio Caruso
4 min readNov 16, 2022

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Mamoiada — Autunno in Barbagia

Altro che spopolamento: le immagini di domenica 5 novembre ci mostrano le vie di Mamoiada brulicare di persone; le testimonianze di chi c’era (oltre 30mila) ci raccontano lunghe ore di fila per accedere a qualsiasi servizio, anche solo arrivare in paese; sui social e sui giornali, intanto, organizzatori e istituzioni esultano per il successo dell’edizione 2022.

Ma davvero “successo” è la parola giusta per descrivere il fenomeno? Tutto sta nel intendersi su questo punto, ovvero quale sia lo scopo di manifestazioni come Autunno in Barbagia che, di fatto, si pone come una sorta di sagra sagrarum isolana. Se l’obiettivo è dunque attrarre visitatori nei piccoli paesi dell’entroterra in un limitato lasso di tempo (i due, tre giorni in cui la manifestazione coinvolge il singolo paese), allora è sicuramente raggiunto non solo a Mamoiada, caso più estremo, ma in ogni tappa.

Il claim della manifestazione, “La Sardegna più genuina”, racconta tuttavia qualcosa di più, fissando l’asticella molto più in alto rispetto al mero raggiungimento quantitativo del numero di visitatori. Sembrerebbe infatti, e non solo dagli slogan, ma da come è sempre stato proposto e raccontato, che l’evento si ponga l’obiettivo di custodire, tramandare, diffondere le tradizioni dell’isola. Non solo un obiettivo economico, dunque, ma anche culturale. E se il primo è, come detto, sicuramente raggiunto, resta da valutare a proposito del secondo.

Partiamo dall’idea di Sardegna che Autunno in Barbagia va a veicolare: all’interno della manifestazione è possibile effettuare una sorta di safari, perlopiù gastronomico, di un’idea, per dirla con Marcello Fois, di Sardegna Sardegna, o Sardegna al quadrato, cui appunto si fa solitamente corrispondere la Barbagia. Un luogo ideale, non più visitabile nel presente — se non in occasioni create ad hoc, proprio come questa –, una sorta di isola che non c’è situata in un passato indefinito, cristallizzata in cibi e rituali stereotipati che si stanno sempre più imponendo come, per l’appunto, simboli di genuinità e arcaicità fuori dalla corruzione della modernità: una sorta di Disneyland della sardità.

Questo tipo di rappresentazione risulta perfetta per un turista esterno, continentale, alla ricerca di una Sardegna prêt à porter, di facile comprensione, ed è infatti quella che viene più diffusa negli spot e nel marketing turistico destinato all’oltremare, insieme al topos delle spiagge dalle acque cristalline e incontaminate (l’ultimo video proposto dalla Regione Sardegna non è altro, del resto, che la crasi di questi due cliché). Eppure gli avventori di Autunno in Barbagia sono per la maggior parte i sardi stessi. Per quale motivo?

Per spiegare l’origine di questo apparentemente paradossale interesse può essere utile l’esempio dei roots travel, i “viaggi delle radici” organizzati per le élite afroamericane le quali, ormai del tutto integrate e assorbite dalla cultura statunitense, avvertono il desidero di riscoprire le proprie origini, la loro vera essenza, e lo fanno — o tentano di farlo — tornando, per una vacanza, nei paesi d’origine dei propri antenati.

Il processo è assai simile: in un mondo globalizzato, in cui è sempre più difficile orientarsi e collocarsi, sia nel tempo che nello spazio, Autunno in Barbagia e manifestazioni simili offrono, tra i loro menu prelibati, anche la pietanza da sempre più ricercata dagli uomini: delle risposte.

Resta da capire quanto la risposta offerta sia autentica. E viene da chiedersi perché un sardo alla ricerca della vera Sardegna sia disposto a sopportare file chilometriche, attese logoranti, calca e ressa seguite spesso da cibi e attrazioni di cui non riesce a godere appieno, i cui prezzi salgono costantemente mentre la qualità si abbassa, quando invece gli basterebbe, molto più semplicemente, mettere il naso fuori dalla finestra e scoprire che in Sardegna, quella vera, unica, inimitabile, lui c’è già. La Sardegna reale, non quella ideale.

Un popolo che cerca in una sagra autunnale delle risposte a delle domande esistenziali (chi siamo? da dove veniamo?) non è certo un popolo fortunato, e l’esempio di Mamoiada — paese, guarda caso, che fa della maschera un proprio simbolo identitario e merita contesti ben più edificanti per essere visitato — diventa sineddoche, simbolo di un’intera regione che, di fronte ai propri tragici tormenti, si strugge nel trovare risposte e soluzioni spesso tragicamente errate.

E così, un sindaco che per 364 giorni all’anno si affanna nel combattere la donchisciottesca battaglia contro lo spopolamento finisce col ritrovarsi, in un qualsiasi giorno d’autunno, a gridare appelli ai quattro venti affinché nessun essere umano si metta in viaggio verso il suo paese. Che strana idea di successo.

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Ignazio Caruso

Nato a Catania, vivo ad Alghero. Adeu (Giulio Perrone Editore) è il mio primo romanzo.