Un’isola allo specchio con la sindrome di Dorian Grey

La Sardegna è regione ospite del Salone del libro di Torino: un’occasione – da non sprecare – per raccontarsi a sé stessa e al mondo grazie al potere della letteratura

Ignazio Caruso
6 min readMay 17, 2023

Lo slogan del programma isolano Un’isola allo specchio, ispirato a quello carrolliano del Salone (Attraverso lo specchio), risulta sorprendentemente azzeccato per descrivere lo stato di salute non tanto della letteratura prodotta nell’isola, quanto per raccontare un sentimento molto diffuso tra i suoi abitanti: una sorta di sindrome di Dorian Grey che pare affliggere i sardi da molto tempo a questa parte. Esattamente come accade al personaggio di Oscar Wilde, infatti, pare aleggiare sull’isola una sorta di resistenza al cambiamento, una paura estrema di vedere l’immagine che si ha di sé cambiare, trasformarsi in qualcos’altro. Il terrore, in buona sostanza, di guardarsi allo specchio e scoprirsi diversi da come si era abituati a pensarsi.

Eraclito ci aveva messi in guardia — non ci si può immergere due volte nello stesso fiume — ed era il V secolo prima di Cristo; lo aveva ribadito, in qualche modo, anche Lavoisier — nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma — ed era il Settecento. Eppure, sfogliando una rivista della nostra isola, ci si può imbattere in slogan come questo: «Abbiamo fatto di tutto per fartela piacere: l’abbiamo lasciata com’era». E dunque, delle due l’una: o Eraclito e Lavoisier si sbagliavano, o nei corsi di marketing turistico sarebbe necessario integrare lo studio della filosofia greca e dell’Età dei lumi.

Ma si tratta, in fondo, solo di uno slogan: il solito amo per turisti in cui il lasciare una cosa «come era» — fosse un borgo, un paesaggio, una regione intera — rappresenterebbe l’esca principale per l’inconsapevole viaggiatore alla ricerca dell’autenticità. Ma quando si butta un amo in mare, non si sa mai che pesce possa abboccare. E quando si tira su la lenza, può succedere che non un pesce, ma un’intera regione abbia abboccato. Così, negli ultimi decenni, la narrazione di un’isola arcaica, senza tempo, autentica, selvaggia, ospitale — e insomma, ci siamo capiti — si è imposta come dominante.

In quel meraviglioso documento che è L’ultimo pugno di terra (1965), Fiorenzo Serra, insieme ad alcuni tra i più grandi intellettuali che quest’isola abbia partorito, descriveva l’esistenza del pastore e spiegava:

«La sua solitudine non è perciò soltanto un fatto fisico, ma più ancora una sorta di muro interiore, una fissità psicologica che gli impedisce di credere alla possibilità di cambiare esistenza; ed egli vive così, giorno dopo giorno, fuori del tempo, quasi nella preistoria.»

È la prima parte del documentario, dove si gettano le basi per raccontare poi l’idea di futuro, la speranza della rinascita, dell’industrializzazione dell’isola. È un’immagine autentica, simile a quella dei dipinti di Giuseppe Biasi, o dei romanzi di Grazia Deledda. La vita «fuori dal tempo» del pastore è determinata dalla simbiosi dell’uomo con l’attività che gli garantisce il sostentamento e con i luoghi che si trova a vivere e attraversare.

Ma come può, questa idea, ancora oggi, monopolizzare la narrazione che l’isola fa di sé stessa?

Una risposta può essere quella che Sergio del Molino, scrittore e giornalista spagnolo, offre nel saggio La España vacía (La Spagna vuota, Sellerio 2019), nel quale analizza la condizione delle regioni iberiche maggiormente spopolate:

«Alla Spagna vuota manca una narrazione in cui riconoscersi. Le storie che la riguardano piacciono a chi non ci vive e rafforzano due tipi di pregiudizi: quello della Spagna nera e quello dell’idillio oraziano. Il primo tipo di pregiudizio è diffuso dai telegiornali. Il secondo dalla guida Michelin. Inferno o paradiso. Non c’è via di mezzo. O assassini o amanti della natura. Anche se in qualche caso l’amante della natura può rivelarsi un assassino.»

È evidente quanto queste parole possano raccontare anche la situazione della Sardegna. C’è però un’eccezione: gran parte dei sardi sembrano affascinati da questa tipologia di narrazione. Le storie che la riguardano, dunque, piacciono anche a chi ci vive. È una sorta di effetto Gabriel García Márquez: Cent’anni di solitudine è un romanzo che piace fuori dall’America latina perché conferma stereotipi e pregiudizi legati a quel luogo; ma piace anche agli abitanti delle grandi metropoli sudamericane, perché in quelle storie rivendono e rintracciano qualcosa di familiare. Funzionano allo stesso modo i cosiddetti roots travel, i “viaggi delle radici” organizzati per le élite afroamericane le quali, ormai del tutto integrate e assorbite dalla cultura statunitense, avvertono il desidero di riscoprire le proprie origini, la loro vera essenza, e lo fanno — o tentano di farlo — tornando, per una vacanza, nei paesi d’origine dei propri antenati. Funzionano così, per certi aspetti, oggi, anche i romanzi di Grazia Deledda; la quale, però, ebbe il merito di raccontare la Sardegna reale, e non immaginaria, del suo tempo — «Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale, e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano», motivazioni per il Nobel, 1926, le stesse per le quali, all’epoca, venne osteggiata in patria.

Nel romanzo La lluvia amarilla (La pioggia gialla, Il saggiatore 2019), Julio Llamazares racconta gli ultimi anni di vita dell’ultimo abitante di Ainielle, paese abbandonato sui Pirenei aragonesi :

«Al principio se ne andavano a poco a poco, poi divenne una fuga disperata: gli abitanti di Ainielle, come quelli di tanti altri paesi dei Pirenei, caricavano tutto quello che potevano sui loro carri, sprangavano le loro case e si allontanavano in silenzio per i sentieri che portavano a valle.»

Se solo avessero intuito prima di noi l’efficacissimo stratagemma delle case a un euro! Ma applicata questa piccola distinzione, pare descriva il destino di molti dei paesi della nostra isola, che ancora si crogiola con la retorica narrazione dei piccoli borghi come bucolici paradisi. Eppure, nell’esergo del libro, l’autore scrive:

«Ainielle esiste. Nel 1970 rimase completamente disabitata, ma le sue case resistono, marcendo in silenzio, dimenticate da tutti in mezzo ai Pirenei.»

E dunque un paese che non c’è più continua a esistere. Nella memoria, nel ricordo, nella letteratura. Perché anche quando si è calati nella fossa, «anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale», scrive Salvatore Satta nelle ultime pagine de Il giorno del giudizio.

È dunque questo il potere della letteratura, quello di renderci eterni attraverso il racconto. Potere che, però, l’arte sembra aver abdicato in favore del marketing. Nel breve saggio Se Venezia muore, Salvatore Settis spiega:

«Il turismo è filtro e mediazione fra la Venezia che fu e quella di oggi. Il flusso turistico è legittimato a usare ogni infamia, come se la città fosse stata costruita nei secoli per i turisti e non per i cittadini.»

Assistiamo così, oggi, a città e regioni che trasformano la loro identità in un prodotto commerciale, in un brand, che sintetizzi ed edulcori la loro storia millenaria, il loro capitale culturale e simbolico per renderlo appetibile e fruibile da chi cerca l’esperienza dell’altrove autentico.

Ma se il sardo di Deledda, Biasi, Serra e tanti altri viveva nel suo essere senza tempo un’esperienza autentica e naturale, quello di oggi perpetua un artificio, un loop, una messinscena di ciò che non c’è più.

In questo, la letteratura deve avvertire la responsabilità che le compete: quella di creare i miti della contemporaneità, di sublimare la realtà dell’oggi, di offrire a un’isola una narrazione che la rappresenti per quello che è, seguendo l’esempio che i grandi scrittori e le grandi scrittrici hanno offerto. In un’epoca in cui a dirci chi siamo sono i manifesti pubblicitari, è un dovere per ogni artista rivendicare il proprio ruolo all’interno della società. Perché se è vero che non ci si può immergere due volte nello stesso fiume, è proprio il fatto che l’acqua vi scorra ciò che lo rende tale: se non scorresse, sarebbe acqua di lago o, peggio, di stagno. Dunque tutto cambia, certo, ma in qualche modo, allo stesso tempo, tutto rimane. Un fiume sarà sempre lo stesso fiume, anche se composto da diverse, e nuove, gocce d’acqua. E un’isola sarà sempre la stessa e sempre diversa, senza paura di guardarsi allo specchio.

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Ignazio Caruso

Nato a Catania, vivo ad Alghero. Adeu (Giulio Perrone Editore) è il mio primo romanzo.